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Lunedì 30 giugno 2025. Ciclo 5A: pembrolizumab 200 mg (1-21), gemcitabina 1700 mg, carboplatino 200 mg (1, 8-21). A corredo: antistaminici, antiemetici, gastroprotettori e corticosteroidi (Trimeton, Akinzeo, Pantorc, Soldesam). Durata complessiva dell’infusione: 4 ore.

Stavolta ho rischiato di dover saltare la terapia perché venerdì scorso, al prelievo di routine, il mio sangue è risultato stufo: globuli rossi, emoglobina, ematocrito, piastrine, MCV, MCH, RDW, … tutto un saliscendi di valori numerici impazziti. Alla ripetizione di stamattina, meglio. L’oncologa, comunque, mi ha detto che con il carboplatino non potremo andare avanti ancora molto a lungo, per via della sua tossicità. Bisognerà trovare farmaci alternativi.

Sono passati centododici giorni dall’inizio delle nuove chemioterapie (10 marzo), diciassette dalla morte di Simone (13 giugno).

Se Simone esistesse ancora, stasera mi scriverebbe o mi chiamerebbe per sapere com’è andata oggi la terapia, come stanno i miei globuli bianchi e se mi sento bene, se mi sono lagnata del port quando mi hanno bucato, se ci sono nuovi esami di controllo programmati. Poi forse io proverei a litigare e lui si rifiuterebbe, dicendo che non vuole litigare con me e che il passato è passato.
È passato, e lui adesso non è più vivo e io non posso parlarci. Invece ho bisogno di parlarci.

Ma l’assenza di Simone è definitiva. Definitiva, e plenaria: quest’assenza sua è un fatto comunitario, riguarda tutti quelli che gli hanno voluto bene. Lui non sa più niente, non ricorda, non sente, non sogna, non ha più pensieri né sentimenti (eppure come avrei bisogno, adesso, di saperlo da qualche parte, in uno di quegli aldilà che abbiamo inventato noi che stiamo qua. Penso che me ne inventerò uno mio).

Noi e le rane bollite

Qualche sera fa, dopo il lavoro, sono andata a cena dai miei; c’erano Mio Fratello Fiduciario e mio nipote Gioele. A tavola si parlava del caldo, il caldo, questo caldo intollerabile, e mia madre diceva che ogni estate è sempre più calda. Allora io ho detto: «Sì, e sappiamo che la colpa è nostra, e per questo moriremo tutti bruciati e finalmente ci estingueremo, com’è giusto». Mia madre ha alzato gli occhi al cielo e poi li ha rivolti prima verso Gioele e subito dopo verso di me, per fulminarmi e ricordarmi la presenza di un bambino di tre anni e mezzo a tavola con noi.

«Insomma, come la rana bollita», ha proseguito in tranquillità Mio Fratello Fiduciario. Che cosa, ho chiesto io. «Moriremo lentamente a ogni estate, – ha chiarito lui, – senza rendercene conto e senza fare niente, come nella storiella della rana bollita». Nostra madre, a quel punto, ha chiesto a tutti se volevamo altri pomodori. Sono quarant’anni che questa piccola donna dagli occhi verdi s’affanna a riempirci la bocca per silenziare conversazioni altrimenti ingovernabili.

La storiella della rana bollita è quel che rimane di un antico esperimento scientifico controverso, in seguito al quale è fiorita tutta una letteratura della “resilienza”, parola che negli ultimi anni ha goduto di una simpatia diffusa.

Il succo della storiella è questo: una rana messa in acqua fredda non si accorge se la temperatura dell’acqua viene aumentata lentamente, ma si adatta al cambiamento fino a perdere la capacità di reagire e saltare fuori dall’acqua. Fine: morte per ebollizione.

La rana bollita: l’esperimento di Goltz, la metafora di Chomsky e il falso mito

La mattina dopo la cena con la mia famiglia sono andata alla seduta gratuita con Alessandro, lo psicologo oncologico del reparto. Tra un pianto e l’altro, il resoconto di una chemio e la disperazione per Simone che non esiste più, gli ho riferito la conversazione avuta con mio fratello sulla rana bollita.

Alessandro ha ascoltato in silenzio e con attenzione, poi ha sorriso e ha detto: le cose non sono andate proprio così. Mi ha spiegato che l’esperimento della rana si svolse diversamente da come si racconta e mi ha invitato a documentarmi, cercare fonti, studiare, fare insomma quello che – lui lo sa, – mi piace tanto fare: sapere le cose come stanno.

1. La rana bollita: l’esperimento di Goltz

Berlino, 1869. Il fisiologo tedesco Friedrich Leopold Goltz si mette a seviziare rane con l’obiettivo di studiarne il cervello e dimostrare che questo è la sede dell’anima, intesa come complesso di funzioni psichiche.

Dopo una serie di esperimenti raccapriccianti, pubblica i risultati delle sue scoperte nello studio Beitrage zur Lehre von den Functionen der Nervencentren des Frosches (Contributi alla teoria delle funzioni dei centri nervosi della rana). Il testo originale è disponibile gratuitamente online.

La descrizione degli esperimenti è dettagliata, scrupolosa e non priva di sadismo. Ne gioveranno, se non lo hanno già fatto, piccoli psicopatici in apprendimento.

2. La rana bollita: la metafora di Chomsky

Stati Uniti, 2014. Noam Chomsky pubblica Media e Potere (traduzione di ?, Bepress). Richiamando l’esperimento di Goltz sulla rana bollita, Chomsky usa l’episodio per farne metafora sociale e ragionare sull’arrendevolezza dell’uomo contemporaneo ai centri di potere.

La teoria di Chomsky, in soldoni: a piccole dosi, un po’ alla volta, finiamo con l’abituarci al peggio. Ci adattiamo, insomma, a mangiare merda.

Per me – nata nel 1981, stordita giovane da studi umanistici e infervorata da una voluminosa tesi di laurea in sociolinguistica, – Chomsky è sempre stato solo quel seducente anarchico fondatore della grammatica generativa che ho studiato oltre vent’anni fa ai corsi universitari di glottologia. Mi limito a prendere consapevolezza dell’impatto che i suoi saggi politici hanno avuto in alcuni Paesi (in Italia non saprei, ma non si direbbe).

3. La rana bollita: le cose come stanno

Quello che la narrazione popolare e contemporanea omette è che la rana bollita di Goltz era decerebrata. È sufficiente scovare e leggere un articoletto del 2009 sulla storica rivista statunitense The Atlantic per sapere come andarono le cose.

L’esperimento di Goltz prevedeva il sacrificio sia di rane alle quali erano state rimosse porzioni di cervello, sia di rane intatte. Nel graduale riscaldamento dell’acqua, a morire lessate furono le rane scervellate. Quelle col cervello reagirono eccome, si agitarono parecchio e cercarano di salvarsi.

Servirono molte rane per comprendere che una creatura vivente ha l’istinto di aggrapparsi alla vita fino allo stremo delle proprie forze. Goltz concluse: «Pertanto, il risultato finale della mia ricerca conferma l’affermazione: il cervello sembra essere l’organo esclusivo dell’anima» (p. 128).

Cambiare la narrazione, quando appare il dolore

I medici mi dicono che – malgrado il disturbo depressivo di natura endogena di cui soffro da tanti anni, e nonostante negli ultimi due anni e mezzo io abbia sperimentato due cancri, una separazione e un lutto severo, – il mio cervello funziona piuttosto bene. È integro, peraltro, e non è stato ancora raggiunto dal Granchio che mi abita fra il seno destro e i suoi vasi linfatici.

Dunque, ho pensato, posso sì scrivere il Diario clinico della mia pazzia, ma pazza non sono.

«Il dolore appare», mi ha detto Alessandro alla fine della nostra seduta. Mi è piaciuta la scelta del verbo. Apparire: mostrarsi, presentarsi alla vista, manifestarsi, comparire, sopraggiungere, evidenziarsi, venir fuori, farsi vedere, spuntare, sorgere, sbucare, affacciarsi.

Quando il dolore appare, e mi fa visita, la scelta è tra scacciarlo, affrontarlo o subirne l’invadenza. È una scelta che abbiamo a disposizione tutti, se il cervello in dotazione è al suo posto.

Mi sono detta: io ho le stesse possibilità della rana

Ho le stesse opportunità della rana di Goltz, quella col cervello ancora tutto intero.

Certamente, la mia natura umana mi condanna al disagio della consapevolezza, che la rana non ha. La rana non ha neppure il peso della malinconia e la responsabilità delle parole, non conosce l’orrore della malattia né il pensiero della morte, ignora il trauma della perdita e il lavoro del lutto. La rana vive nel suo perpetuo presente.

Ma anche noi umani, pur provati dagli eventi, siamo provvisti di quello che serve per sfuggire alla paralisi e salvarsi da quella morte lenta e quotidiana che è l’assuefazione alla mestizia.

E così mi dico: non sono mai stata tanto vicina alla sostanza della vita come in questo momento in cui sono tanto vicina alle occasioni della morte. Mi sono ammalata e poi ammalata ancora; ho visto il matrimonio tra me e Simone finire in miseria e poi ho visto Simone dentro una bara; rischio di crepare di cancro e presto il carboplatino non potrà più aiutarmi. Lo strazio che provo mi appare estremo e inguaribile. Eppure, ecco: sto fra i vivi, e spesso mi scopro tanto più viva di molti di loro.

Scopro che salvarsi è rifiutare di abituarsi alla sofferenza, di adattarsi allo sconforto, di diventare zombie.

Muore solo la vita che non viene fissata nella scrittura

Osservo, anche, che sto provando a salvarmi nello scrivere fino alla fine delle forze che servono per scrivere.

Io provo a letteraturizzare la vita, a trasformare la realtà in materia narrativa per prendere la giusta distanza dalla mia esperienza personale, autobiografica, e osservarne invece la dimensione umana, che riguarda tutti noi vivi.

“La vita sarà letteraturizzata. […] Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà qual è priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno uguale all’altro di fronte agli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace solo di figurare quale un numero di tabella statistica del movimento demografico. Io voglio scrivere ancora”.

Italo Svevo, Confessione di un vegliardo, 4 aprile 1928

[Simo, la chemio è andata bene, sono solo un po’ malconcia. Tu come stai, che dici?]


Immagine in copertina: Foto di Erzsébet Vehofsics su Unsplash.
Una nota per chi arriva in questo blog per la prima volta, provenendo da ricerche sul fenomeno della rana bollita:
Progetto Kintsugi è un blog di narrazione sull'esperienza della malattia oncologica. Se il vostro interesse si limita a leggere contenuti di carattere divulgativo su temi di psicologia, crescita personale e tutte quelle questioni con nomi inglesi come life coaching, mindfulness, counseling, well-being, allora siete nel posto sbagliato (ma io ho indicizzato bene per i motori di ricerca).