lo-sbilico

L’ho notato: il lavoro part-time che ho da gennaio mi regola le giornate e l’umore meglio della lamotrigina che prendo da più di dieci anni.

L’altro mio lavoro, quello di copywriter freelance, mi chiede invece un’effervescenza che non sono più in grado di sostenere con assiduità e per questo non mi adopero né smanio per riportarlo alla mole e alla brillantezza di una volta. Alla vivacità intellettuale dei lavori creativi sto preferendo la quiete della routine impiegatizia; alle scadenze di consegna dei piani editoriali, il calendario dei turni; alla solitudine trasandata davanti al computer a casa, la buona abitudine di vestirmi con decenza, l’andirivieni di persone, il caffè al bar prima di cominciare una nuova giornata. Mi calma, questo prepararmi a includermi anch’io nel piccolo formicaio quotidiano delle creature ordinarie.

Questa infusione di normalità nel flusso della mia vita è divenuta in pochi mesi la migliore contenzione mentale possibile, per ora priva, almeno questa, di effetti collaterali (ne consegue pure che i fine settimana e i festivi sono i momenti più rischiosi per l’impazzimento al quale sono predisposta: troppe possibilità, troppo tempo fuori dal binario dell’abitudine).

Da due anni la malattia oncologica si accompagna a quella mentale della depressione maggiore di natura endogena, che invece c’è da tanto tempo e con la quale, grazie alle terapie, ho imparato a coabitare con inimmaginabile disinvoltura, sapendo anche accettare gli intervalli di tempo – ore o giorni, – in cui la gestione si fa più faticosa e il mio cielo più scuro. Succede e basta, come un muscolo che ogni tanto si rinfiamma.

Il diritto di impazzire

Quest’annata si è presentata subito cattiva, disgraziata, avvelenante, tanto che pure uno abitualmente sano di mente avrebbe tribolato a non dare di matto: non soltanto la diagnosi di recidiva del cancro mi ha guastato in profondità, ma anche le firme per la separazione dal buon marito che ho avuto accanto. Nel frattempo finivo il trasloco più luttuoso della mia vita mentre iniziavo questo nuovo lavoro part-time.

«Io ho tutto il diritto di sbroccare», mi sono ritrovata a scrivere ieri a mia madre, che si dava da fare a dirmi di non crollare, che l’arrivo del caldo non giova alle mie condizioni (è vero: un’altra estate di chemioterapie, dopo quella del 2023, chi se la vuole fare. Mi suderò addosso tutto quanto, i farmaci e altri veleni, in un tripudio di iperidrosi cranio-facciale).

Ho tutto il diritto di sbroccare, ho detto a mia madre, ma non è così. Non è una questione di diritti. Non è una tessera di raccolta punti, dove più incassi disavventure più ottieni ragioni del tuo squilibrio, dei tuoi scompensi: il corpo impazzisce e basta, in un luogo qualsiasi della sua materia. O in più di uno.

Lo sbilico

Qualche giorno fa ho letto un’intervista allo scrittore Alcide Pierantozzi, che ha da poco pubblicato il suo ultimo libro, Lo sbilico (Einaudi 2025). Con accortezza dico “libro” perché più leggo narrativa italiana contemporanea e meno conosco i generi: romanzo, memoir, autofiction, autobiografia, non lo so, i confini mi appaiono porosi. A me piacciono tutte le buone riscritture della vita, e il buon lettore di storie – credo – non si cura di spulciare tra il vero e il non vero.

Lo sbilico, dicevo. Nelle prime pagine del libro, Alcide racconta del cancro di sua madre e intreccia un legame stretto con la narrazione del proprio disturbo mentale. «Quella malattia, così totalizzante e feroce, – gli dice chi lo intervista, – è come se riguardasse da vicino anche te, come se lottassi anche tu con un cancro da cui non si sfugge». Lui risponde così:

Lo psichiatra mi dice sempre che il corpo umano ha due modi per impazzire: o quello cellulare o quello psichico. A un certo punto il corpo capisce che non ce la fa più a resistere, a sopportare la vita, così sceglie una delle due strade per autoeliminarsi.

Angela Bubba, Lo sbilico: uno scrittore contro la sua stessa mente, Rivista Studio, 29 maggio 2025

Quando ho letto questa risposta, ho sorriso. Mi è venuto fuori quel sorriso flemmatico che da qualche tempo mi spunta in faccia quando ritiro referti, metto firme, ricevo conferma di notizie spiacevoli.

Il mio corpo, da quando esiste, da quando gli tocca sopportare la vita, tende all’autoeliminazione. Se i modi sono due, allora la mia personale biologia li sta saggiando entrambi, insieme, per avere più opportunità di riuscita.

Eppure, il mio corpo misteriosamente vive

Sono viva e vivo. Lavoro, pago l’affitto e le bollette, mi scaldo le cene nel microonde, e cerco di non impazzire quando non lavoro – leggo, vado al cinema, vado al ristorante, alle presentazioni di libri, vedo amici, tra poco inizio ad andare anche al mare; altre volte, invece, me ne resto a letto a trasudare sconforto. In ogni caso, giorno dopo giorno, il mio corpo misteriosamente vive. Sarà merito anche, chissà, della virtuosa alimentazione proposta dalla nutrizionista oncologica due anni fa e ossessivamente curata e consegnata a domicilio da mia madre, o delle molte tisane disintossicanti che mi aiutano a spurgare il marcio che ho dentro. Sarà anche la psicoterapia. O l’infuso dei fiori di ibisco essiccati che mia zia Antonella mi fa arrivare dal Senegal. Oppure la skincare coreana. Chi può dire cosa mi tiene ancora qui nel mondo dei vivi, sebbene dei vivi malati.

Lunedì avrò la TAC di controllo. Poi, da martedì, inizio un altro ciclo di carboplatino, gemcitabina e pembrolizumab. Presto rivedrò il mio Gran Maestro russo, sarò a colloquio con lui e i suoi piccoli occhi intelligenti.

Tutti – i medici, i miei familiari e amici, chi legge questo blog, io, – tutti stiamo per scoprire se questi due mesi di terapie hanno incenerito il Granchio, o se lo hanno a malapena intontito mentre lui prosegue la sua avanzata dal seno alla pelle, e dalla pelle chissà a quale altro organo da colonizzare. Allora sarà più chiaro cosa fare: se tornare in sala operatoria oppure no, se proseguire con le terapie e per quanto, o se lasciar perdere tutto e usare meglio questo scampolo di tempo che m’avanza.

A mio agio nello sbilico

Il libro di Alcide Pierantozzi è micidiale come i libri che piacciono a me, ha una scrittura straordinaria ed è vero com’è vera quel tipo di letteratura che giova alla letteratura e a chi la frequenta. Come ha scritto Teresa Ciabatti in suo post Instagram, quando esce un capolavoro è bene dirlo.

Leggerlo in questi giorni mi fa sentire a mio agio, al riparo in un posto familiare. L’impazzimento mio è duale, un doppio guasto sistemico, una coppia esplosiva di errori nel codice genetico: nel seno le cellule si riproducono e moltiplicano fuori controllo, e intanto nel cervello si svolge tutta una baldoria di neurotrasmettitori disfunzionali.

Quell’ora piccola

Di recente ho scritto di Susan Sontag che ha scritto del regno dei sani e del regno degli infermi. Ho riflettuto sulla linea invisibile che li separa. Oggi, a illuminare questa linea di separazione, mi è venuta in aiuto una pagina di Alcide Pierantozzi in cui racconta di una lite col gestore del lido dove la sua famiglia va da quasi quarant’anni. Dopo una discussione, il gestore lo invita ad andare al lido per disabili lì accanto.

«Che ne sa, – scrive alla fine del capitolo intitolato “Disabile o non disabile?”, – cosa significa non aspettarsi più niente di grande, ma solo una serenità piccola, da cistoscopia, una salute piccola, un amore piccolo per un tempo minimo?».

Ho pensato che quello che Alcide scrive a proposito di noi matti è vero anche per noi malati di cancro, e dunque per me è vero due volte:

Noi matti continuiamo a resistere perché aspettiamo quell’ora piccola in cui finalmente faremo uno di quei respiri che invogliano a scrocchiarsi la schiena coi pugni puntati. Aspettiamo quell’ora lì, che sia una soltanto, quell’ora per un caffè che non ustioni il cardias, quell’ora ventenne anche a cent’anni, noi matti la aspettiamo perché noi matti, quando non speriamo di morire nel giro di un attimo, vogliamo tutti vivere cent’anni.

Alcide Pierantozzi, Lo sbilico, Einaudi 2025, pag. 46
[Devo stare un po' attenta. Questo blog è letto anche da familiari, amici, conoscenti, e non tutti sono quei buoni lettori di storie che servono alle storie (quelli che, come dicevo, non si curano di spulciare tra il vero e il non vero), forse perché poco abituati alla lettura o perché nella vita hanno altri interessi, altri pensieri, altri guai. Accade spesso, quindi, di dover rispondere a domande come: «Ma è vero quello che hai scritto nel blog?», «Ma quella cosa è successa per davvero?» (o anche: «Non hai fastidio a raccontare i cazzi tuoi?»). È vero, non è vero. E io avanti a dire che non ha importanza, non ha importanza. Sono almeno dieci anni che, riguardo al vero di un racconto, continuo a tirare fuori un passo di Francesco Piccolo che sta nella postfazione alle sue Storie di primogeniti e figli unici, Einaudi, 2012, alle pagine 127-128. Andate a cercarvelo]
Immagine in copertina: foto di Aarón Blanco Tejedor su Unsplash