Quando apro la porta di casa a Simona, mi trovo davanti a una tavolozza di colori: due occhi grandi e scuri, una canotta verde acido sopra il denim blu chiaro di pantaloncini strappati. Le mani, raccolte all’altezza del seno, reggono un vassoio confezionato con carta pelleaglio bianca e un nastrino celeste. È domenica 21 settembre, fa ancora caldo e lei ha addosso un’abbronzatura bellissima dell’estate appena finita. Mi ha portato una crostata con la marmellata di albicocche, presa in una pasticceria che ha aperto da poco qui, nel nostro paese.

Io e Simona siamo compaesane, abitiamo a poche centinaia di metri l’una dall’altra, e non ci siamo mai incontrate prima di oggi. È possibile che, in passato, sia stata proprio lei a servirmi da bere al Klidé, ma nessuna delle due se lo ricorda. Sicuramente, quella sera d’agosto del 2023 in cui ho bevuto un cocktail buonissimo a base di bulldog gin, pino mugo, chartreuse, zucchero, limone e rosmarino, non è stata lei a portarmelo, perché in quel periodo era già malata e aveva smesso di lavorare. Anche io, in quel periodo, lavoravo pochissimo e passavo la maggior parte del tempo tra il reparto di oncologia e il letto di casa.

Simona mi ha contattato all’inizio di settembre, con un messaggio privato inviato in punta di piedi su Instagram, per partecipare alla declinazione corale del Kintsugi Project e offrire quindi il suo contributo alle storie delle donne-albero. Quando iniziamo a parlare, mi dice che avrebbe voluto scrivermi già da molto ma che ha avuto bisogno di prendersi del tempo. Colgo subito il suo riserbo e per questo la sua adesione spontanea e coraggiosa al Kintsugi Project ha ancora più valore.

Le offro un caffè, un tè, una tisana, ma Simona vuole solo un bicchiere d’acqua. Cominciamo.

L’incontro

È la mattina del 10 luglio 2022 quando Simona avverte un dolore diffuso al seno sinistro, poco al di sotto del capezzolo. Si palpa, ed è allora che lo sente: anche per lei, come fu per me, la memoria del primo incontro con il suo cancro al seno è tattile.

In quell’estate lì, Simona ha 37 anni e una vita tranquilla, un lavoro, un marito e due figli: si è sposata l’anno prima con il compagno di una vita, ha ancora il suo lavoro di barista al Klidé, fa la mamma di Diego, che in quel momento ha 11 anni, e di Emma, che ne ha 5. Anche io, in quell’estate lì, avevo una vita tranquilla, un lavoro freelance a pieno regime, un marito e due gatti.

La malattia, quando si presenta, viene sempre a scompaginare una storia, rompere equilibri, creare una frattura fra un “prima” e un “dopo”.

Simona non faceva controlli da tre anni, l’ultimo era stato prima del lockdown che ci ha esiliati in casa. Lì per lì, quando le sue dita toccano la durezza di questa specie di nocciolo, non si preoccupa e va a lavoro come tutti gli altri giorni. Il referto di un’ecografia, fatta più per scrupolo che per apprensione, la conduce all’esperienza dolorosa e spiacevole di un ago aspirato, cui seguono subito una mammografia e una biopsia. Accade spesso: a partire dal primo controllo che evidenzia la necessità di approfondire, il tempo accelera all’improvviso e gli esami si susseguono a raffica. Perciò, nel giro di un mese, Simona scopre di avere un carcinoma duttale infiltrante G2, con un indice di proliferazione al 70%. Va bene, dice, togliamocelo di torno.

Il 31 agosto, al Torrette di Ancona, anche Simona lascia uno dei suoi seni e il linfonodo sentinella alla scienza e alla ricerca oncologica (e tuttavia, di tumori della mammella si continua a morire: nel 2022 sono stati stimati 15.550 decessi in Italia, dati AIOM 2024, pagina 156. Non parlino a vanvera i sani che “dai, ormai dal tumore al seno si guarisce, sono tutti curabili”). Eppure lei affronta l’intervento come se si trattasse di togliersi un’ernia. Soltanto quando chiede al senologo chirurgo se la settimana successiva all’operazione può tornare a lavoro, comprende di essere entrata nella sua nuova vita, quella di dopo, perché lui la guarda e non le risponde.

L’esperienza della chemioterapia ha inizio il 7 novembre 2023.

“Le quattro rosse e le dodici bianche”: l’inevitabilità dell’epirubucina e della ciclofosfamide, sparate in vena ogni ventuno giorni attraverso il PICC e seguite dai cicli settimanali di taxolo, è ancora oggi un passaggio obbligato. Sul corpo accadono battaglie o miracoli, albe e tramonti.

Prima di tutto, bisogna perdere i capelli. Ma Simona si mette la parrucca rosa.

Nausea e vomito, perdita di sensibilità al calore, mal di stomanco, stipsi, gonfiore in tutto il corpo, lingua bianca e bocca cattiva, repulsione improvvisa per alcuni cibi sempre amati. Ognuna di noi, durante le terapie, ha sviluppato un’avversione verso qualche sapore, odore o consistenza; per me è stato e rimane l’aceto, per Caterina era l’acqua liscia. Per Simona, i biscotti al cacao.

Il bollore della menopausa, quello le è già iniziato ancora prima della chemio, con le punture di Decapeptyl. A me non hanno fatto queste iniezioni per indurla, è arrivata da sé con il primo ciclo di rossa. I sintomi della menopausa – e quanto possano essere invalidanti in certe giornate, – sono familiari soltanto a chi va in menopausa. La fiammata impensata che si genera dentro, nelle viscere, nel petto, sul collo, sopra il labbro, sul cuoio capelluto, arriva all’improvviso e in un minuto tutto al di sotto della pelle è rogo, torcia umana, fiaccola vivente. E tu scoli, sgoccioli, grondi, trasudi sofferenza. Giuro che si piange moltissimo.

Nel giorno del suo trentottesimo compleanno, il 15 febbraio 2023, Simona riceve il secondo ciclo di taxolo e se ne va in shock anafilattico.

Certamente è un compleanno memorabile. Me la immagino, la nostra instancabile oncologa in comune, minuta, caschetto biondo, mani nodose e pratiche, eloquio accelerato: arriva di corsa nella stanza dove Simona sta andando in crisi respiratoria e ristabilisce l’ordine e l’armonia.

La cura viene cambiata, si passa al Nab-paclitaxel. È sempre un farmaco chemioterapico, della famiglia dei taxani, ma più tollerabile grazie all’uso dell’albumina, che riduce la tossicità e il rischio di reazioni allergiche.

Superato il problema del taxolo, arriva quello del PICC, che si danneggia e deve essere sostituito. A me il PICC s’era attorcigliato in vena succlavia e hanno dovuto togliermelo; adesso ho il port, il mio detestabile Bat-apparecchio. PICC, port, midline: sono tutti arnesi che ogni paziente oncologico conosce bene, servono a iniettare i farmaci delle terapie. Non è piacevole farsene impiantare uno, né sostituirlo, ma sul serio per noi malati queste non sono che piccole seccature.

Il 2 aprile del 2024 Simona torna in sala operatoria.

È ora di togliere l’espansore inserito durante l’intervento di mastectomia e rimpiazzarlo con la protesi definitiva. Ne approfittano per risimmetrizzare l’altra mammella, quindi viene operato anche il seno destro.

Molte donne, prima della protesi, passano per il limbo dell’espansore. L’espansore fa quello che deve fare: espande. Serve a creare più spazio quando la pelle disponibile non basta a richiudere ciò che è stato aperto. Per espandere la pelle, si usa gonfiare l’espansore con iniezioni regolari di acqua salina. Dopo un continuo viavai ad Ancona per questa scocciante procedura, a dicembre l’espansore di Simona si è rotto e lei se l’è tenuto così fino a primavera.

Che fortuna ho avuto, penso, ad avere già tutto ciò che serviva a mettere subito la protesi e ricucire. In sala operatoria, prima o poi, ci tornerò lo stesso per sostituire la protesi con una nuova di zecca. L’altro seno sarà da sollevare un po’, perché cede al tempo e all’invecchiamento come tutte le mammelle del mondo, mentre il seno operato è tenuto su dalla protesi, immobile, dritto come quello di una ventenne.

Il seno operato è un falso d’autore, una bugia detta bene, un artificio della moderna chirurgia, l’invenzione dell’uomo – del maschio, per meglio dire, – mirata a mantenere il controllo di una condizione perlomeno visiva. Le tette due erano e due devono restare. Alla fine, se ne convince pure la proprietaria. Però la vita con la protesi se la fa lei, con tutti i disagi relativi: la manutenzione, la scomodità, l’insensibilità al tatto e alla temperatura, i doloretti di quando cambia il tempo come accade ai vecchi.

Simona esce dalla sala operatoria con la protesi e senza capezzolo. Succede, quando non può essere salvato. «Mi hanno richiuso come un salame», mi dice, e mi mostra il salame. Non credo che si possa davvero capire come si sente una donna senza un capezzolo. Io il mio ce l’ho ancora, intatto, giusto un po’ schiacciato rispetto all’altro, e mi sembra incredibile.

Simona è guarita. La paura di una recidiva, quella invece non guarisce mai.

«Prima o poi mi torna, – dice, – a tutte è tornato». Anche io lo pensavo, e infatti è tornato.

Quando le chiedo cosa l’ha spinta a partecipare al Kintsugi Project, mi dice che l’ha fatto soprattutto per sé, per leggere la sua storia in uno spazio franco come questo blog, dove si dicono le cose come stanno ma si dicono bene, con riguardo per la scrittura, e c’è posto per la leggerezza e l’ironia. Sorrido di gratitudine.

Le chiedo se è credente e lei mi risponde «Sì e lo impreco». Mi racconta della paura di morire giovane e di non poter vedere i figli crescere. Le chiedo se fa progetti (io no), lei mi dice che il primo obiettivo adesso è ripristinare la vita lavorativa senza sentire il peso della stanchezza. Nel dirmi questo, si chiude a braccia conserte e io capisco che la questione del lavoro la rabbuia. D’altra parte, quello del ripartire dopo una diagnosi di tumore al seno è un tema molto dibattuto negli ultimi anni e socialmente spinoso.

La cura di mantenimento per Simona è una terapia ormonale che dura da cinque a sette anni, lei è al terzo anno. Stanchezza cronica, dolori articolari diffusi, ma che sarà mai per una donna-albero? Simona vuole riprendere un aereo per andare in Grecia senza avere attacchi di panico: a questo si pensa, non alla terapia che mentre cura uccide.

Per la parte corale del Kintsugi Project, quella di Simona è la settima delle storie delle donne-albero e lei è, finora, la più giovane delle donne che hanno partecipato.

La canzone di Simona

Alla fine delle mie conversazioni con le donne-albero, chiedo sempre di scegliere una canzone che accompagni la loro storia. Simona sceglie Battisti, Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, perché è la canzone che ascoltava più spesso mentre andava a fare le terapie in ospedale.

Kintsugi Project: come farne parte

Basta contattarmi all’indirizzo annalisa@progettokintsugi.it oppure in privato sul mio profilo Instagram @annalisa.disalvatore. Tutto qua.

Il testo finale viene sempre inviato alla persona interessata per la sua approvazione prima di essere pubblicato qui e diffuso sui social.

Grazie a chi vorrà farsi avanti e mantenere in vita il ciclo delle storie di donne-albero.

[Immagine in copertina: Gabriela Cheloni from Pexels, free for Canva Teams]

{Mi leggo e rileggo, e m'accorgo di essere sempre più a corto di parole, e intendo le parole quelle giuste e precise che voglio io, quelle che cerco anche come lettrice di storie, le parole ben temperate e quelle armoniose, piene. Mi dispiace, c'è ancora la nebbia mentale e mi difetta la voce, mi difettano l'ingegno e l'ispirazione. Ringrazio Simona per la paziente e rispettosa attesa della pubblicazione della sua storia}