
Giorno 76, forse. Dopo il ciclo 4-A (carboplatino, gemcitabina, pembrolizumab).
Giovedì e venerdì non sono riuscita a finire il mio turno di lavoro. Verso le quattro e mezza del pomeriggio, puntuale, è scesa sugli occhi quella coltre scura che ormai conosco bene, inesorabile come il sonno dei vecchi. Sono andata a casa, mi sono stesa a letto. Ci sono rimasta quasi tutto il fine settimana.
È già successo durante la prima volta, due anni fa, di avere giornate in cui non riesco a lavorare, a pensare, leggere un libro, guardare un film, seguire una conversazione. Stare accorta, partecipe.
Riconoscere in questa spessa nebbia uno degli effetti delle chemioterapie non è difficile, né spaventoso. È, tuttavia, uno stato di torpore che mi avvilisce e vivo con un senso di profonda umiliazione.
Avevo avuto più tempo tra un ciclo e l’altro, il mese scorso, come regalo di Pasqua. L’ho testato: mi servono almeno tre settimane di riposo, una in più rispetto al protocollo, per riuscire a mettere in fila una modesta serie di giornate normali. Chissà se si può forzare il protocollo. Lo chiederò alla mia oncologa domani, quando andrò in reparto a fare “il richiamino” di questo quarto ciclo: si può forzare il protocollo? Si può allungare il tempo della tregua?
Terapie, prelievi, visite, esami, più gli imprevisti: quante volte, in un mese, un paziente oncologico entra in ospedale? Quante in un anno? In quale misura il tempo delle cure s’accaparra porzioni di vita? Quanto spazio si prende la malattia, nella consuetudine delle giornate?
Si diventa stranieri nel mondo dei sani.
Per quanto i sani siano empatici e comprensivi verso il malato, per quanto l’affetto e l’amicizia – l’amore, talvolta, – costituiscano spesso una virtuosa mediazione tra due culture del vivere (quella dei sani, appunto, e quella dei malati), tra di loro c’è una linea invisibile. A tracciarla non è soltanto l’esperienza corporea della malattia, ma la scansione del tempo, l’andatura che prende la giornata. Così che, alle otto del mattino, per fare un esempio, è ora di accompagnare i bambini a scuola, per l’uno, mentre è ora dell’iniezione di filgrastim, per l’altro: l’uno sperimenta l’affanno del genitore, l’altro il tramestìo del proprio midollo osseo. E quanto dura, poi, l’effetto di un antidolorifico? Sarà quello, il tempo che abbiamo per un aperitivo insieme.
Che dire, inoltre, del modo di pensare: di come la malattia possa trasformare l’intero sistema di pensiero di un individuo, l’insieme delle sue idee, credenze, decisioni? E la percezione della temperatura esterna, dei sapori, degli odori? Del futuro?
Il lato notturno della vita
Nei miei momenti di lettura, e spesso in questo blog, continuo a tornare senza pace fra le pagine di Susan Sontag, come a cercare un’alleanza, una voce con cui risuonare:
La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più gravosa. Ogni nuovo nato detiene una duplice cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno degli infermi. E per quanto preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto migliore, prima o poi ciascuno di noi è costretto, almeno per un certo tempo, a riconoscersi cittadino di quell’altro luogo.
Susan Sontag, Malattia come metafora, traduzione di Paolo Dilonardo, nottetempo, 2020, p. 13
È uno dei passi più citati di Sontag, niente di nuovo dalla fine degli anni ’70 a oggi. Rifletto molto su questo lato notturno della vita, su cosa Sontag volesse intendere assegnando al mondo dei malati lo spazio dell’oscurità e al mondo dei sani, per conseguenza, quello della luce.
Non è detto che sia il grado di chiarore a creare la differenza, ma, forse, lo stato di vigilanza. Forse il malato è sveglio quando il mondo dei sani dorme (non è romantica inquietudine, spesso è solo semplice cortisone). Forse, il malato si muove perlopiù nella penombra della vita, non visto. Il malato si fa e pone domande scomode, che disturbano il sonno dei sani.
Mi riconosco pienamente «cittadina di quell’altro luogo». È il mio Nuovo Mondo. Ci abito, ne parlo la lingua, ne indosso sulla pelle i costumi; della vita di prima mi ricordo poco, quel che serve (mio malgrado, spesso, anche quello che non serve). Quanto ero superba, per esempio, e com’ero certa d’essere io, la padrona, io il centro.
Nel mondo dei malati si va di notte, sì, per strade sconosciute e mal illuminate.
Quando si dice che «in giro non si vede anima viva». Senso di pericolo. Qualcosa che si è perso (la sicurezza, il noto, un riparo). Miagolii acuti di gatti in calore; in lontananza, treni che passano. Cose rotte (oggetti, legami), bidoni rovesciati, spazzatura al chiaro di luna.
Il malato ci cammina in mezzo, come Nel paese delle ultime cose, quel vecchio romanzo di Paul Auster sui moderni dannati nella città apocalittica.
Qui, dal lato notturno della vita, cosa potremo mai dirci, noi e voi, al mattino?
[Immagine in copertina: Night Road, by Oleg Tcachev, Getty Images]