Sono tornata nel bunker dell’acceleratore. Era tutto come me lo ricordavo: al centro della grande stanza blindata e semibuia, ho ritrovato il colosso tecnologico dotato di Gantry, marca Varian. Il Gantry è la testata rotante che permette al fascio di radiazioni ionizzanti di colpire il Granchio da più angolazioni girando intorno al paziente sdraiato e mezzo nudo.
Alla fine, dopo tre mesi di consultazioni e viavai tra Milano, Ancona e Ascoli Piceno, il piano di difesa Petrojsan ha incontrato il favore di tutti i medici coinvolti: via con quindici cicli di radioterapia sulla parete mammaria, a cominciare da lunedì 6 ottobre, tutti i giorni dal lunedì al venerdì. L’altra radioterapia, quella fatta tra dicembre 2023 e gennaio 2024, un paio di mesi dopo la mastectomia, era sovraclaveolare e ascellare; questa di adesso, invece, viene sparata dritta sulla mammella, quella operata e riempita con la protesi. Certo, con qualche possibile danno alla protesi, ma che fa? Me lo ha detto anche lui, il mio prezioso Gran Maestro, quando sono andata da lui a Milano lo scorso 2 ottobre.
«La situazione è seria»
«Ci conosciamo da tanto tempo e so che posso essere diretto», mi ha detto il mio seducente Boleslavs’kyj de’ Navigli, con il suo sguardo intelligente, attento, e un’espressione ormai del tutto benevola nei miei confronti (o impietosita?). Poi ha fatto una pausa per portare i gomiti sulla scrivania e il mento sulle mani intrecciate a canestro, come fa sempre quando si concentra sul viso di chi ha davanti prima di dire qualcosa di molto importante: «La situazione è seria. Per questo, Annalisa, dobbiamo giocarci tutte le carte rimaste, e ne sono rimaste poche». “Seria”, lo so, vuol dire che il rischio di lasciarci la pelle ormai è elevato. Al diavolo la protesi, insomma: potrebbe spostarsi, accartocciarsi, rompersi, usurarsi prima del tempo, ma che sarà mai.
La radioterapia al seno operato, mi ha spiegato, ha lo scopo di sterilizzare l’area della recidiva, mentre intanto l’immunoterapia cerca di tenermi al riparo dalle truffe del Granchio. La chemio l’abbiamo fatta e rifatta, è dal 2023 che il mio corpo viene arso dalla chemio. Un altro intervento chirurgico per ora non si può fare, perché non abbiamo modo di conoscere la reale area di espansione sulla cute. Quante volte me lo avranno detto in questi mesi, quante?
«Sarò diretta anch’io, – gli ho detto, e mi ricordo di avergli copiato la pausa mentre mi avvicinavo di più alla scrivania: – Fra i casi simili al mio, sono di più quelli che ha visto finire bene o quelli che ha visto finire male?». Lui ha risposto subito e senza esitare: «Male». Male, ha detto il mio Gran Maestro. Il mio Gran Maestro non parla mai a sproposito. In sostanza, tanto vale provare: questo, credo, il senso finale. E loro, i medici, le stanno provando tutte, lo vedo; questo serio ritorno di malattia li ha disorientati.
E se invece io dicessi basta?
Basta terapie, basta cure, basta farmaci, basta effetti collaterali, basta visite ed esami, basta questo andirivieni tra ospedali, le attese, i referti, i consulti, gli emocromi settimanali, le “second opinion” illustri, i “vediamo” di tutti e gli “un giorno alla volta” della mia oncologa, basta, basta, basta.
Ho detto, continuo a dire, dico: se invece basta?
«Se invece basta, – ha concluso lui, – la situazione peggiorerà, e anche piuttosto rapidamente». Sono stanca, gli ho detto. Lo so, mi ha risposto. Allora ho confessato il resto e il resto è che l’ultima volta che ci siamo visti, lo scorso 13 giugno, Simone è morto. Il mio Gran Maestro a quel punto ha allargato le braccia e mi ci ha buttato dentro. Mi dispiace, Annalisa, mi dispiace tanto. E come è successo, e quanti anni aveva, eccetera eccetera.
Mi è chiaro, comunque, che nemmeno stavolta avrò la forza di rifiutare le terapie, ho ancora qualche passo prima di crollare a terra e affermare la mia resa. Quel giorno verrà.
Radioterapia, un anno e mezzo dopo: «Io ce l’ho caudale»
Sdraiarsi sul lettino dell’acceleratore e lasciarsi sistemare dai due tecnici, uno di qua e uno di là, può diventare un’esperienza piacevole se si seguono le indicazioni: non ci aiutare, rimani ferma, ti spostiamo noi, non accompagnare il movimento. Io devo stare “a peso morto”, quindi come un cadavere prima del rigor mortis, mentre loro mi aggiustano un braccio, un fianco, un lembo di pelle. Ci vuole un minuto buono, credo, per farli mettere d’accordo sui puntini neri tatuati sulla pelle in fase di centratura.
Per un po’ vanno avanti a dirsi: «Io ce l’ho caudale, parecchio caudale», «Io craniale». Ferma, devo stare ferma, immobile. Come sempre accade quando mi sento pressata dalla richiesta di una prestazione anche minima, mi viene subito l’istinto di fare esattamente il contrario di quanto mi è stato ordinato di fare, per cui ecco che sento improvviso prurito dappertutto e ho bisogno di grattami il naso, la fronte, il collo, la spalla, un braccio, ho bisogno di starnutire, di spostarmi i capelli, mordermi il labbro.
«Ti vedo poco rilassata», mi dice stamattina una dei tecnici. “No, macché! – vorrei dirle, – Anzi, qua è meglio di una spa, me la sto proprio godendo!”. Invece le dico solo che no, è tutto a posto, scusate, scusate. Mi aspettano un po’ spazientiti, ricominciano da capo, caudale, craniale, caudale, craniale, finché non ce la facciamo e finalmente il trattamento può iniziare. I due se ne vanno alla svelta, la grossa porta di radioprotezione Comecer si richiude dietro di loro con una specie di fischio, e io rimango sola, nuda dalla vita in su, sdraiata con le braccia allungate sopra la testa – il destro non arriva più dove arriva il sinistro da quando mi hanno asportato i linfonodi ascellari.
Il Gantry fa zzz, tonf, zzz, tac, zzz
Chiudo gli occhi mentre mi ruota intorno emettendo suoni e mi circonda come un grosso animale che mi stia annusando. Mi sento scivolare qualche lacrima. Penso che la mia non sarà una morte veloce, né indolore.
L’esposizione alle radiazioni dura solo pochi minuti e se in passato, alla mia prima esperienza, li usavo per una breve sessione di meditazione, questa volta li vivo come una tortura e un’umiliazione. Non si può chiedere a un corpo che vuole muoversi di stare fermo. E poi: come sono stanca di tutta questa faccenda. Non faccio che ripeterlo a chi mi chiede come sto, sono stanca, sono molto stanca.
Dopo la radioterapia vado a lavoro, e lavoro. La sera, prima di andare a letto, spalmo sul seno due grosse ditate di emulsione cutanea Neoviderm, come mi hanno detto di fare (due volte al giorno). Verso la fine dei quindici cicli l’ustione comparirà comunque, ma forse non avrò bruciore se mi preoccuperò di seguire con disciplina tutte le raccomandazioni, di cui la prima è quella di non dimenticare mai l’emulsione cutanea Neoviderm e poi: indossare sull’area della pelle irradiata soltanto tessuti naturali come cotone 100% o lino. Mettere a rosvescio eventuali magliette intime, per evitare il contatto della pelle con le cuciture. Non esporsi al sole, né stare troppo vicino a fonti di calore come camino, termosifone, forno e fornelli. Lavarsi con acqua tiepida e saponi neutri. Asciugarsi tamponando la pelle con delicatezza, senza strofinarla. Non usare nessun tipo di deodorante, a eccezione dell’allume di rocca. Così per qualche mese, anche dopo la fine dei trattamenti.
Un giorno alla volta
A volte mi viene la febbre all’improvviso, senza un sintomo che l’annunci. A volte devo passare una giornata a letto. Da quando ricevo le cure per il cancro, non mi sono mai presa un’influenza, un mal di gola, un comune malanno di stagione – forse, non lo so, i farmaci delle chemioterapie sterminano qualunque batterio, qualunque virus. Però gli effetti collaterali li ho patiti, li patisco, e io mi sento sfinita, offuscata da un’influenza continua, con qualche periodo di ripresa fra un trattamento e l’altro. Ho un bollore per la maggior parte del tempo, mi pare di avere la febbre pure quando non ce l’ho.
Anche l’impegno che metto nella scrittura di questo blog, questo mio vanaglorioso progetto di trasformare la disperazione in creatività, il disastro privato in invenzione narrativa, ha cominciato a essere faticoso, meno riuscito nella scrittura e poco appagante.
Sto morendo un giorno alla volta, mi dico. Come tutti noi, del resto, – ogni giorno in più che viviamo è un giorno in meno che resta in questa traversata verso l’autoeliminazione, – però con la differenza che io lo sento quotidianamente con limpidezza, ed è il corpo a ricordarmelo nelle molte volte che non ce la fa a fare anche poco, anche il minimo: lavare due piatti, pulire la casa, fare una passeggiata, salire le scale, uscire a cena, finire di leggere un libro, prendere in braccio i miei nipoti. Non ho la vitalità di quando venivo qui un anno e mezzo fa, né la fiducia, no, chiedo scusa ai sani, scusatemi, m’è passato l’estro.
Ma lo spirito, dicono. Lo spirito. E di cosa si nutre lo spirito? Di cosa è fatta la gioia? Me lo chiedo mentre sto nel bunker a farmi “sterilizzare” dalle radiazioni: di cosa è fatta la gioia. Dopamina, serotonina, ossitocina, endorfine e?
Di cosa è fatta la gioia.
[Immagine in copertina: Chest x-ray by Tonpor Kasa from Getty Images, free for Canva Teams]
I tuoI nipotI? È nato anche l’altro? Cos’è, chi è?
😞
So che leggere in questo momento è complicato, però ti consiglio “Non ti manchi mai la gioia” di Vito Mancuso