Relazione clinica: carcinoma mammario con metastasi cutanee locoregionali e linfonodali“.

C’era scritto così nella richiesta compilata dalla mia oncologa per la TAC di controllo che ho fatto sabato 30 agosto. TAC total body con mezzo di contrasto. Quante TAC ho fatto quest’anno? Tre con questa di agosto, tutte total, tutte con mezzo di contrasto. E dal 2023, dall’inizio della storia, quante? Apro il raccoglitore del 2023-2024 (per il 2025, ne ho un altro): dice quattro, mi sembravano di più – mi confondono tutti gli altri esami: le ecografie, le mammografie, l’ago aspirato, le biopsie, le risonanze, la scintigrafia, le PET. Allora sono solo sette TAC in due anni e mezzo. Sette ondate di calore.

Il referto, quando sarà pronto (quando sarà pronto?), dirà se Il Granchio ha raggiunto altri organi. È un’ipotesi saldamente plausibile, da quando ha conquistato la via dei vasi linfatici.

Lunedì 8 settembre 2025. In attesa di referto TC inizia 1° ciclo Pembrolizumab ogni 21 giorni, in mantenimento.

Marcata astenia alla sospensione del cortisone che condiziona in maniera significativa le comuni attività giornaliere e che migliora dopo qualche giorno. Riferisce comparsa di parestesie migranti agli arti superiori. Richiesta EMG. Lieve tachicardia. Lieve leucopenia. Globuli bianchi 2,6 mila x mmc L (val. di riferimento 4,0-10,0). Globuli rossi 3,22 milioni x L (val. di riferimento 3,80-4,80). Granulociti neutrofili 1,21 mila x mmc L (val. di riferimento 1,90-8,00).

Dal registro delle terapie

Oggi, dunque, ho iniziato il Pembrolizumab da solo, senza chemio. «Sospendiamo anche il cortisone», mi ha detto la mia oncologa. «Ah, bene» ho detto io, e ho pensato che finalmente, forse, liberata dal cortisone inizierò a sgonfiarmi: guance, collo, pancia. «Senza cortisone, oggi potrebbe venirle un po’ di febbre», ha aggiunto subito. «Ah».

Mi è venuta la febbre nel pomeriggio. L’antistaminico, il Trimeton, mi ha fatto dormire per ore come al solito. Mi sento stremata. Sono a casa, oggi non lavoro.

Il 2 settembre ho compiuto 44 anni.

A volte mi viene da tirare le somme. «Mamma diceva sempre che le somme si tirano alla fine», mi ha scritto di recente Martina, la migliore amica di Simone, la sua testimone di nozze. Me lo ha scritto a inizio giugno, un paio di settimane prima che lui morisse.

Ho vissuto intensamente?

Che cosa significa vivere intensamente? Me lo chiedo, non mi rispondo.

L’estate scorsa ho guidato alle tre del mattino lungo la strada della Bonifica, a pochi chilometri da casa mia. La strada della Bonifica, qui la conoscono tutti – da qualche anno ha notorietà perfino internazionale grazie a un documentario del The Guardian (il servizio completo è disponibile sul sito del giornale); chissà quanti miei concittadini sono a conoscenza della popolarità del nostro paese all’estero e per cosa sia, come si direbbe in inglese, infamous (che non è, in questo caso, il nome del famoso videogioco, ma l’aggettivo che in italiano renderemmo come “famigerato”, o più spesso “tristemente noto”). La Bonifica conta più degli arrosticini.

Ho guidato lungo la Bonifica, dicevo, e mi sono fermata a chiedere a una prostituta perché lo fa. Perché devo lavorare, è stata la risposta. Non ha detto: perché mi piace. Lei mi ha chiesto cosa ci facessi lì alle tre di notte, se avessi «litigato con fidanzato». «No, non ho litigato con nessuno: mio marito m’ha lasciato però mi sono salvata dal cancro» – in quel momento avevo da poco finito le terapie e sembravo ancora “tecnicamente guarita“. «Vai a casa», mi ha detto lei.

Ho dimenticato il nome di quella donna. Aveva un viso bello, lontano da canoni e consuetudini della Bonifica, minuta e sottile, vestita come una commessa in un negozio di abbigliamento o l’impiegata amministrativa di un’azienda. L’ho guardata mentre si allontanava dalla mia macchina, l’ho vista salire poco dopo su un’altra. Sono andata a casa, che era ancora quella di via Colombo. Quest’inverno ho ricevuto la diagnosi di recidiva.

Io, superstite imbarazzata, rinuncio

Giovedì sono stata al tribunale di Ancona a firmare il mio atto di rinuncia all’eredità del de cuius Simone Volpini, mio marito. Nonostante la nostra separazione, infatti, per lo stato rimango la “coniuge superstite“. Non ero ancora mai entrata in un tribunale – quella tra me e Simone è stata una separazione veloce e pacifica in Comune, senza necessità di avvocati e giudici. Quindi la mia prima volta in tribunale è stata questa, per una rinuncia all’eredità che, secondo la legge italiana, sarebbe spettata a me, la moglie, prima che alla madre e alla sorella.

La cancelliera mi ha letto l’atto ad alta e solenne voce, – si fa così, – e io ho dovuto ascoltare e confermare tutte le informazioni: che «Simone Volpini, nato a Jesi il 15 giugno 1973, è deceduto a Jesi il 13 giugno 2025». Ho annuito, – e di fronte alla parola deceduto ho sentito montare la solita colla negli occhi e stringersi il solito cappio intorno alla gola di quando devo arrendermi a questa specifica, lampante certezza: Simone è morto. Che io, «Annalisa Di Salvatore, nata a San Benedetto del Tronto il 2 settembre 1981», sono la moglie. Ho annuito di nuovo, tirando su col naso, e ho avuto un momento di esitazione. No, mi scusi: sono l’ex moglie, ecco l’atto di separazione. Non occorre, mi ha detto allora con gentilezza la cancelliera, a me basta la sua dichiarazione. È qui, mi pare, che sono scoppiata a piangere per bene. Che imbarazzo, che melodramma, quale volgare pateticità.

Ho ascoltato il resto, ho confermato tutto, ho firmato, inchiostro e muco, e sono andata via. Questo mese, oltre alla rata del mio F24, pago anche un F23 per registrare il mio atto di rinuncia.

Simone mi mancava già da vivo. Ma adesso

L’avevo inserito nell’Inventario di quello che mi mancherà e un po’ mi manca già, a marzo.

Non avevo voluto io la nostra separazione. Però, prima, mi ero assai impegnata a metterne la voglia a lui. Non vivevamo più insieme già da un anno, quando è morto. Avevo cominciato appena ad abituarmi alla mancanza.

Ma adesso. Ogni volta che metto a fuoco l’evento della sua morte, tocco per un istante la punta di un panico purissimo. Accade di solito mentre lavoro o sono tutt’assorta in qualche altra attività come leggere un libro, stare in una conversazione, guardare un film, pulire la lettiera del gatto. Mi distraggo, mi fermo, sposto la sguardo, e l’orrore della verità mi assale. Lo so, io lo so, che è morto, lo so, e tuttavia in quell’attimo lo scopro come un’evidenza nuova, lo riapprendo e ne intuisco più profondamente le spaventose conseguenze: Simone adesso non esiste più, non è qui dove siamo noi vivi, non lo vedrò mai più, non ci parlerò mai più. E non si può fare niente, non c’è una fede a darmi un po’ di conforto, non c’è una magia, un diavolo di sortilegio che materializzi la sua figura qui davanti a me adesso, e io non trovo ristoro, un laicissimo appiglio per sopportare questa assenza così concreta e – maledizione, – veramente irrisolvibile. Perché adesso non posso più concedermi nemmeno di vaneggiare, di fantasticare che un giorno, chi lo sa, magari da vecchi, potremmo anche riconciliarci e rimetterci insieme.

Se ci arrivo

Ma poi, anche la vecchiaia per me è una fantasia: mi è sempre più difficile immaginare di farne esperienza. Ho anzi preso l’abitudine di dire frasi come: «L’estate prossima, se ci arrivo, voglio prendere l’ombrellone al Lidian per tutta la stagione», o «Al diciottesimo compleanno di mio nipote, se ci arrivo, …», oppure «Mi sto pagando la pensione, se ci arrivo» (ma credo che questa qui la diciamo in molti, con o senza il cancro).

«Se ci arrivo», lo dicono i vecchi, i moribondi, gli sfiduciati e gli esausti.

Ma quando una casa, una famiglia, è frequentata dalla malattia e dalla morte, capita pure che arrivi una nascita a pareggiare i conti, equilibrare i pesi del vivere: verso la fine di questo mese, nascerà il mio secondo nipote.

Verrà con l’autunno. All’autunno ci arrivo. Ho boschi da vedere e un bambino da conoscere.

[Immagine in copertina: faggeta di Canfaito, foto scattata da me il 14 novembre 2021]