Due fatti, la settimana scorsa, m’hanno levato la parola: mercoledì 9 luglio, l’incontro a Milano con Petrosjan, che mi ha illustrato il suo piano di difesa. Domenica 13 luglio, la mia visita a Simone, che sta al cimitero.
Mi sono accorta, dopo, di non riuscire più a compattare i pensieri, radunarli, farne frasi fluide. Avevo preso due giorni di ferie al lavoro, lunedì 14 e martedì 15, e sono andata al mare con mio nipote Gioele, che ignora il mio cancro e ignora la morte di Simone, aspetta la nascita del fratello, ma è soprattutto interessato alle macchinine Hot Wheels. Ho passato molto tempo a osservarlo giocare sulla riva con i nonni – mio padre e mia madre che con disinvoltura maneggiano vita e morte in famiglia, – mentre me ne stavo immobile, corpo e pensieri posati sul lettino sotto l’ombrellone.
Continuo a sentirmi un’abusiva nel Nuovo Mondo.
La difesa Petrosjan
Insisto a stare qui, in mezzo ai vivi, e grazie ai vivi contribuenti vado a fare la mia chemioterapia e stavolta pure l’immunoterapia. Il mio costo sociale è di oltre 100.000 euro all’anno.
Petrosjan si è consultato con il mio Boleslavs’kyj. Hanno concordato: aumentiamo la difesa, aumentiamo i costi. Avanti con il carboplatino e la gemcitabina, ancora, avanti con il pembrolizumab, avanti, ma non basta, bisogna tornare dentro il Gantry: i quindici cicli di radioterapia ascellare e sovraclaveare fatti tra dicembre 2023 e gennaio 2024 sono da revisionare. Irradiamo, irradiamo ancora e di più, fino al torace, irradiamo finché non brucia tutto. Costruiamo una difesa tale che il Granchio venga carbonizzato.
Non s’è parlato di guarire, verbo oltremodo pretenzioso in questo momento. Il piano di difesa Petrosjan serve a creare un’opportunità di scampo in assenza di spazi chirurgici. Petrosjan è bravo nel suo gioco (e se lo dice anche da solo), mi sono perciò imposta di perdonargli la limitatezza della sua tastiera espressiva quando ha detto: «Con questo programma si apre uno spiraglio di speranza, possiamo ancora farcela».
Ma dobbiamo essere contenti, ha esclamato infine Petrosjan, che abbiamo ancora partite da giocare, mosse da fare, pedoni e pedoni di globuli bianchi da sacrificare. Sta andando tutto bene, ha detto, e che non mi venisse in mente di stancarmi delle terapie, perché allora perdiamo sicuro: non scherziamo, Annalisa, ché qui si muore!
Qui si muore
Guardate invece come muore un uomo a modo: senza fare storie, in un giorno soltanto e senz’avviso, con garbo e poca spesa. Alle 21:45 del 13 giugno 2025, dopo appena qualche ora di malori. Senza chiasso, giusto la sirena di un’ambulanza da casa all’ospedale.
Ed ecco, domenica 13 luglio, nel cristiano trigesimo, una non credente singhiozza sulla tomba di un ateo. Ho pensato: Simone ne avrebbe cavato una battuta ingegnosa, io qui so solo dannarmi con un girasole in mano.
Com’è penosa, questa umana pratica millenaria che abbiamo di seppellire i nostri morti finché c’è spazio al di sotto e al di sopra della terra, – e quando non ci sarà più spazio, compostiamoli lungo autostrade e piste ciclabili; – com’è matto questo bisogno di tenerli a guastarsi purché ancora vicini a noi, dargli un posto dove poterli trovare. Pure io, sprovvista d’ogni fede, ho sentito l’urgenza di rintracciare Simone da qualche parte, in un luogo fisico. Io, eretica epicurea condannabile alle pene dantesche di un sepolcro infuocato, di Simone continuo a cercare la presenza materica.
Cimitero di Jesi. Campo 1 ampliamento, loculo 44
Carlo mi aveva mandato la posizione. Lo stesso ci abbiamo messo una buona mezz’ora per trovare Simone, perché lo cercavamo nel campo 1 della parte vecchia. Invece lo hanno tumulato nel cemento delle nuove costruzioni.
Camminavo svelta, divisa tra il bisogno e l’orrore di avvistarlo, quando me lo sono ritrovata tra i piedi: stava giù, al basamento di un alto muro di morti impilati sopra di lui. Ci siamo piegati sulle ginocchia. «Simo, che scherzo ci hai fatto», ha bisbigliato mio padre. Mamma si è coperta gli occhi con una mano e si è allontanata. Io mi sono sentita piangere in un modo nuovo: un gemito lungo e continuo simile all’ululato di un grosso cane, a labbra chiuse, che a tratti si apriva in uno scroscio di singhiozzi fragorosi.
Ecco, gli ho detto muta: negli anni nostri spensierati, – ancora così vicini, saldati a questo mio presente, – avremmo mai potuto concepire una visione più spaventosa di quella che ci fa ritrovare qui questa domenica mattina del 13 luglio 2025, al cimitero di Jesi, me accucciata a guaire davanti a questa lapide provvisoria in plastica bianca, dietro la quale, secondo la foto e i dati riportati, ci sei tu dentro una bara?
L’errore, lo scandaloso errore della tua morte. Il tuo messaggio del 27 maggio su WhatsApp: “Ho fatto la prova da sforzo, il cardiologo ha detto che va tutto bene, era solo un controllo per scrupolo”. “Ma tu ti senti bene?”, chiedevo io. “Sì, mi sento bene, solo un po’ stanco”. Sia decapitato il cardiologo. Oltre vent’anni di Rytmonorm quotidiano e tutta la tua diligenza, con qualche passabile dimenticanza. Hai preso la compressa?
Io superstite
Mi ritrovo fra le mani un certificato di morte.
Gli accordi di separazione personale firmati in Comune all’inizio di quest’anno hanno poca importanza in materia di diritti di successione e liturgie burocratiche: non è avvenuto divorzio. Per lo Stato, Simone è morto coniugato con me e io sono vedova. Sono la coniuge superstite.
Alla fine dell’estate mi presenterò ben vestita al tribunale di Ancona e dirò «Signor Giudice, io rinuncio». Rinuncio ai beni mobili e immobili di Simone Volpini, rinuncio a dire “mio marito” – un vizio che ancora faticavo a togliermi del tutto, nonostante le evidenze così infilate in un paio d’anni: il mio tradimento, la mia malattia, la nostra disfatta, il suo ritorno a Jesi, il suo nuovo amore in risarcimento. Rinuncio a ogni vantaggio che mi possa derivare dalla sua assenza, come già avevo rinunciato al beneficio che mi derivava dalla sua presenza, come già avevo rifiutato la fortuna di quegli anni spensierati, evidentemente ritenendo io la spensieratezza cosa assai noiosa, più adatta ad altre persone.
Con pari fermezza, vorrei rinunciare anche al mio diritto alla cura, dare le mie dimissioni. Questo è complicato perfino più della legge. Mi vedo inseguita da familiari e amici, da Boleslavs’kyj e Petrosjan, dalla mia oncologa, dai radioterapisti, dalle infermiere gentili del reparto, dagli psicoterapeuti Alessandro e Carola, – queste cure, perdio, si stanno trasformando in un TSO. Mia madre, lei credo potrebbe anche prendermi a botte (come quando a noi bambini irrequieti si diceva «Se ti fai male, ti ci meno sopra»).
L’incombenza di andare avanti
Ieri sono tornata a lavoro. Il lavoro adesso ha lo scopo principale di rimescolare le idee come sedimenti di polpa sul fondo di una bottiglia di succo di frutta. E lo fa: rimette in circolo quei due o tre residui di pensiero funzionale, omogeneizza il flusso delle cose. Infatti, temo le ferie di agosto.
Stabile e sotterranea è la titubanza, una specie di preoccupato imbarazzo, su questo concetto dell’andare avanti che in molti si prodigano a ripetermi. Me lo sento pesare come un mandato: ho questo incarico di vivere un altro po’, curarmi, fare cose, lavorare, stare nel traffico, badare al gatto. Sul serio, che altro m’invento?
[Immagine in copertina: Post apocalyptic survivor in gas mask by cyano66 from Getty Images, free for Canva Teams]
Lacan sosteneva che il reale è il problema, ma che bisogna convivere con i problemi come (ovviamente è la mia interpretazione) se ci surfassimo sopra.
Ciao Melon Stone, scusa il ritardo.
Non conosco bene gli scritti di Lacan, il concetto del surfing mi suona come quel “planare sulle cose dall’alto”.
[…] finalmente i radioterapisti che si occupano di valutare la fattibilità della radioterapia suggerita da Petrojsan: più estesa, più rischiosa, più brutale di quella già fatta. Poi […]