Lunedì 7 luglio 2025. Ciclo 5B: gemcitabina 1700 mg, carboplatino 200 mg. Corredo: antistaminici, antiemetici, gastroprotettori e corticosteroidi (Trimeton, Akinzeo, Pantorc, Soldesam).
Centodiciannove giorni dall’inizio delle nuove chemioterapie (10 marzo), ventiquattro dalla morte di Simone (13 giugno).
Frinire intenso di cicale. Ho un odio tutto nuovo e ancora più feroce, verso questa estate.
Questa mattina ho piagnucolato per il buco della terapia quando l’ago di Huber ha perforato il serbatoio del port sottocutaneo. Certo, in queste settimane la superficie visibile dei miei bulbi oculari è rivestita di una sottile gelatina di pianto pressoché stabile, sempre incline a luccicare e sciogliersi in uno sgocciolio di lacrime zitte. Quindi, che sia per il doloretto di un pizzico sulla pelle, o lo sfinimento dell’andirivieni in ospedale per le cure, o il tormento di un lutto inguaribile, che importanza ha? In reparto, a lavoro, sui social, in paese: sanno. Io piango in silenzio, e con mite compostezza faccio quello che c’è da fare – compiti, commissioni, conversazioni.
Si prepara negli spazi vuoti, l’imboscata della mia mente, e nei tempi che chiamiamo “morti”: spostamenti in auto, certe sere a letto, attese in reparto, e poi c’è il problema del tempo che chiamiamo “libero”.
Quando mi sembra di non poter più sopportare lo strazio che mi violenta, ho le mie gocce di Valium, il mio mezzo milligrammo di Xanax, un po’ di sonno. Oppure, altre volte, vi ricorro preventivamente per dichiararmi: adesso pace.
Mangiare
Ieri ho passato la domenica in spiaggia, pranzando allo chalet con Daniele, un amico di passaggio dalle mie parti. Avevo avuto i dolori fino al midollo, quelli causati dall’iniezione di Nivestim per far risalire i globuli bianchi, ma mi ero ovattata di tachipirina e brufen. Mi è sempre piaciuto tanto pranzare allo chalet, mangiare pesce e bere vino bianco all’ombra del pergolato davanti al mare, e poi tornare sotto l’ombrellone alla controra. Era una tradizione estiva con gli amici qui in paese, con mia cugina, con la famiglia. Con Simone.
Invece ieri, mentre pranzavo e chiacchieravo con Daniele, mi sono accorta di non trovare alcun appagamento nel cibo, nemmeno un indizio di soddisfazione nella posizione felice del tavolino, nell’arietta fresca che sollevava i bordi delle tovaglie di carta. Ho ordinato gli gnocchi allo scoglio rimestati dentro un padellino, gli spiedini di gamberi e totani con le patate al forno, la cheesecake al cioccolato, mezzo litro della casa. C’erano molte cose belle sulla mia tavola e intorno a me, e io, a starci in mezzo, ho avuto una percezione di spreco.
I libri, e le presentazioni dei libri
Lo stesso era accaduto la sera prima, quando sono andata a una rassegna letteraria organizzata a Martinsicuro perché c’era Diego De Silva che parlava del suo ultimo romanzo, I titoli di coda di una vita insieme (Einaudi, 2024).
Ho letto tanti libri di De Silva, credo tutti; ho assistito ad altre sue presentazioni; l’ho seguito per molti anni, lui e il suo personaggio Malinconico. “Sarà una di quelle cosette mie che piacciono a me, – mi sono incoraggiata mentre andavo, – mi fa bene fare le cose che mi piace fare”.
Invece nulla. È gradevole ascoltare De Silva discorrere, e tuttavia io stavo seduta senza sogni su una sedia: appoggiata, come una cosa dimenticata, lungo il lato esterno della terza o quarta fila. “Può essere che mi abbiano stufato le presentazioni dei libri”, mi sono detta lì per lì – d’altra parte, delle presentazioni si sono stufati gli autori, che da qualche settimana ne predicano sui social. Si saranno stufati pure i lettori, chi lo sa. Di nuovo, a stare lì in questo flusso di vita, ho percepito un che di spreco.
Dopo la presentazione, prima di tornare a casa, sono passata in via Colombo. Ci ero andata almeno un altro paio di volte nel corso di quest’ultimo anno. Luglio 2025, e non hanno ancora tolto i nostri cognomi dal citofono del palazzo: Volpini S. – Di Salvatore A. Il primo dei due ha vissuto lì fino a fine maggio 2024, la seconda fino a ottobre. L’uno è tornato a vivere nella sua città di origine, l’altra ha traslocato in un attico verso la fine del paese. Si sono separati. A lei è venuto di nuovo il cancro, lui è morto d’infarto (o crepacuore?). Questa storia, comunque, era cominciata allegra, dieci anni fa.
Di tutti quanti, solo io
Ieri a pranzo, mentre io sgocciolavo lacrime mangiando gnocchi allo scoglio, Daniele mi ha fatto notare che Simone aveva superato ciò che di brutto era successo tra noi: «È più di un anno – mi ha detto, – che era tornato a vivere a Jesi. Si era ristabilito, aveva iniziato a frequentare un’altra donna, se n’era innamorato ed era sereno. Ti aveva perdonato. Ti voleva bene, vi sentivate, ti mandava le foto dei gatti, si preoccupava per te con questo cazzo di cancro. Semplicemente lui era andato avanti». Io ho annuito mandando giù il vino allungato con un goccio di sollievo istantaneo: mi ristora sempre quando mi fanno notare che Simone era in pace, che non è morto infelice.
Poi il mio buon amico ha detto: «Di tutti quanti, solo tu – solo tu, mi ha detto, perfettamente a suo agio nell’insalatona che aveva ordinato, – ancora non superi la fine della vostra storia».
La colpa
Allora mi s’è fatto silenzio nelle orecchie. Mi sono allestita nella mente questa specie di allegoria elementare: un giorno, una casa crolla sotto le improvvise picconate psicotiche di una delle due persone che ci abitano insieme. Ne escono tutt’e due rotte e insanguinate. Si curano, ne parlano, lasciano passare del tempo, si vogliono bene, ma la crepa irreparabile è quella tra loro, un tracollo insospettabile. Dei due, l’innocente vittima del delirio dell’altro sente di non essere più al sicuro con chi ha accanto, perciò sceglie di allontanarsi e trovare riparo in una nuova vita. A non superare il trauma della crepa è solo la persona responsabile di aver sfasciato la casa, sì.
Ditemi: che c’è di incomprensibile in questa trama facile, anche ignorando l’ordito? È una delle storie umane più ancestrali, quella del tradimento della fiducia, il tradimento biblico: consegnare al nemico, a un’altra sorte, a un’altra storia (leggere o rileggere il saggio di Aldo Carotenuto, Amare tradire. Quasi un’apologia del tradimento, Bompiani 2017). E poi la colpa, dove la mettiamo la colpa?
Dal mito greco al romanzo moderno, nel mezzo sovraccaricandosi di semantica cristiana, la cultura della colpa giunge fino a noi, qui oggi, raccolti in questo chalet di paese a mangiare pesce a buon prezzo e raccontarci storie di piccoli crimini coniugali.
[Piccoli Crimini Coniugali: perfino nel giorno del nostro matrimonio feci stampare sui segnaposti una citazione tratta da quella commedia teatrale di Eric-Emmanuel Schmitt che dice: “Se un giorno vedete un uomo e una donna davanti a un sindaco o un prete, chiedetevi chi dei due sarà l’assassino”. Sono stata io]
Simone sapeva vivere
«È vero. – ho risposto infine a Daniele, – Lui era andato avanti. È sempre stato così, comunque. Simone sapeva vivere».
Ce lo siamo detti anche con altri amici in questi giorni: Simone sapeva vivere. Io no, m’ha sempre fatto fatica. Io l’unica cosa che sapevo fare era mettermi a scrivere la vita che non sapevo vivere. Da qui, forse, viene questo senso di spreco che mi accompagna in tutte le attività di questo mio nuovo tempo, in questo Nuovo Mondo senza Simone.
Il Nuovo Mondo
Questo Nuovo Mondo mi appare meno interessante senza un Simone Volpini che lo abita e sa vivere. Non importa che non sia più con me. Importa che non vive più. Che non balla più tango argentino, che non gioca a scacchi, non legge manga, non guarda anime, non scatta fotografie in bianco e nero, non programma siti web né app, non si mette le magliette assurde, non mangia arrosticini, non fa battute, non dice più a nessuno in jesino «Fa’ bembè».
Mia madre mi scrive su WhatsApp: ” Se hai bisogno di qualcosa chiamami”. Le rispondo: “Ho bisogno che fai resuscitare Simone, puoi?”. “Questo non mi è possibile altrimenti lo farei”, scrive lei. Concludo: “Allora non mi serve niente” e metto via il cellulare.
Pure queste nuove chemio sciacquate che mi iniettano nel petto due, tre, quattro volte al mese: che fanno? Nemmeno i capelli mi hanno fatto cadere, stavolta. Nel diario clinico che la mia oncologa con diligenza compila a ogni giorno di terapia, andrebbe registrato anche: spreco di risorse pubbliche su paziente non collaborante. Perché non collaborante è pure quel paziente indifferente all’essere vivo e capelluto.
Così sto oggi, lunedì 7 luglio 2025, nelle due ore in cui il carboplatino e la gemcitabina mi percorrono, e intanto il lutto mi penetra. Nel Nuovo Mondo senza Simone, tutte le cose mi appaiono stinte e io mi scopro ancora più impreparata a sopportare la vita che m’avanza. Potrebbe pure avanzarmi una vita lunga, come quella di certe vecchie che sopravvivono a due, tre, quattro tumori e altre disgrazie, una vita lunghissima come quella di certe malerbe che seppelliscono mariti, parenti, amici, e loro invece non le ammazza mai nessuno.
L’ultima partita a scacchi che vedrò io nel Nuovo Mondo

È in questo Nuovo Mondo che scolora e smargina, è a questo punto della storia, che dopodomani conoscerò un altro Gran Maestro russo. Lo chiameremo Petrosjan. Dispongo dunque che il il mio Boleslavs’kyj de’ Navigli sia il secondo di Petrosjan – negli scacchi, “il secondo” è il collaboratore di un giocatore durante un torneo importante.
Petrosjan, operativo anche lui all’Ospedale San Raffaele di Milano come oncologo luminare al fianco del senologo luminare, segue casi di carcinoma mammario metastatico, è specialista di tripli negativi come il mio ed è appassionato di cure sperimentali che salvano la vita. Boleslavs’kyj mi ha consigliato di parlare con lui, adesso che navighiamo a vista.
Il colloquio con Petrosjan, lo spreco della sua intelligenza dedicata a me: ecco, questo sì, sarà lo spasso più verosimile della mia terza settimana nel Nuovo Mondo.
[Immagine in copertina: Mondo Novo - By Giovanni Domenico Tiepolo - Web Gallery of Art: Image Info about artwork, Public Domain]
Un atteso appuntamento di straziante condivisione.
Grazie
Ciao Giorgio,
vedo che sei iscritto al blog per ricevere via email l’avviso di nuovi post. E adesso, per la prima volta, ti sei anche manifestato qui nei commenti. Ti ringrazio io, per entrambe le cose.
Lettura straziante, sì, me ne rendo conto (in parte, è pure questo che ricerco nella mia scrittura), ma spero anche una specie di piccolo piacere, come quello che si prova di fronte a cose fatte bene.
Al prossimo appuntamento,
A.
Avvincente e ironico questo post, o capitolo, sempre ben scritto. Grazie.
Grazie a te, Edvige, che mi leggi sempre!
Con la tua scrittura puoi fare quello che vuoi
La più probabile è ‘na finaccia.
Anche nel.post precedente volevo lasciare un commento, poi mi sono tirato indietro. Perché leggere così tanta letteratura e sapere che è tutta realtà provoca un poco di ritrosia. Credo che a molti di noi tu stia dando una chiave di lettura della vita.
Melon Stone, ciao, lo dico a te come ad altri che mi hanno scritto via e-mail: non tiratevi indietro. Se avete qualcosa da dire dopo aver letto un post, lasciate un commento.
Anche se qui – non lo nego – si prova a fare letteratura, questo spazio rimane pur sempre un semplice blog, mentre la letteratura sta da un’altra parte, perlopiù sdoganata dalle case editrici. Probabilmente è così che dev’essere.
Riguardo alla realtà della vita raccontata e a chiavi di lettura: è così anche nella letteratura.
Grazie per il tuo passaggio,
A.